di APS Litorale Nord

In questi tempi i ragazzi di tutto il mondo stanno manifestando il loro disappunto, la preoccupazione per il futuro del pianeta e della nostra specie e la protesta contro i governi che parlano molto, ma fanno poi piuttosto poco di concreto per la salvaguardia dell’ambiente.
Non si può che concordare con Carlo Pedrini quando sostiene che, se una delle caratteristiche di questa manifestazione è la sua universalità, il cibo – in quanto denominatore che accomuna tutti gli esseri umani – è uno dei principali temi di riflessione e uno dei primi indiziati, colpevole e al contempo vittima dell’aumento delle temperature, dell’innalzamento del livello del mare, della perdita di biodiversità e della maggior frequenza di eventi climatici estremi.
Posto che nutrire il pianeta rimane una necessità imprescindibile per la nostra sopravvivenza, è però evidente che in un mondo dove una parte muore per fame e l’altra soffre per obesità, dove il modello agricolo attuale è responsabile di circa il 21% delle emissioni di gas serra e dove un terzo della produzione totale di cibo viene sprecata (ogni secondo l’equivalente di 6 camion di cibo commestibile viene gettato via, mentre nelle
città meno del 2% dei nutrienti contenuti negli scarti e rifiuti organici viene valorizzato), qualcosa deve cambiare. Gli attuali metodi di produzione alimentare hanno impatti disastrosi, anche dal punto di vista economico: per ogni dollaro speso per il cibo, la società complessivamente ne paga due. Ovvero 5,7 trilioni di dollari all’anno. Quindi fanno bene i ragazzi a scendere in piazza e a gridare che qualcosa deve cambiare. Ma quel qualcosa dipende sì dai governi, ma anche da noi consumatori.
Se per esempio ogni famiglia consumasse il 30% in meno di carne, scegliendo magari quella di allevamenti estensivi e locali, ridurrebbe da un lato le sue emissioni di circa 1000 chili di CO2 l’anno e dall’altro anche il rischio di deforestazione sempre crescente a causa dell’aumento di pascoli e campi per il bestiame. Se si limitasse il consumo di pesce proveniente da allevamenti intesivi, come spesso son quelli di gamberi tropicali e salmone, si eviterebbe un consumo smodato ed eccessivo di antibiotici che inquinano le acque e il nostro cibo. Se si prediligessero i mercati dei contadini, stagionali e locali, dove il cibo è più fresco e ha percorso meno chilometri per raggiungere le nostre tavole, si limiterebbero drasticamente le emissioni.
E se, qualora proprio non ce la si facesse, al supermercato si spendesse qualche minuto in più nel leggere le etichette e nel domandarsi la storia di quel prodotto, riusciremmo a fare scelte più sagge. Se fossimo più consapevoli e morigerati, forse anche i governi e le aziende inizierebbero a capire che è ora che la musica cambi. E saranno proprio le città che guideranno la riconversione circolare del cibo. Da qui al 2050 l’80% del cibo prodotto nel mondo sarà consumato nelle città. Questo vuol dire che le aree urbane avranno un ruolo fondamentale nel guidare la transizione verso un diverso sistema di produzione del cibo in grado di fornire alimenti sani, in quantità sufficiente a nutrire tutti gli esseri umani e senza distruggere l’ambiente, anzi migliorandolo.
Secondo lo studio “Cities and circular economy for food” della Ellen McArthur Foundation, le città dovranno muoversi in tre direzioni: 1) ridurre gli sprechi; 2) riutilizzare i sottoprodotti e gli scarti; 3) pensare e commercializzare cibo più sano.
Queste tre azioni messe insieme potrebbero produrre benefici per 2,7 trilioni di dollari all’anno. Infatti, proprio perché l’80% del cibo finisce nelle città, le aree urbane hanno la capacità di influenzare significativamente i sistemi di coltivazione e di produzione, interagendo direttamente con i produttori locali. Spingendoli ad adottare approcci rigenerativi per il terreno, per esempio utilizzando fertilizzanti organici e non convenzionali, adottando la rotazione delle colture e promuovendo la biodiversità.
Favorire l’approvvigionamento del cibo su scala locale è una scelta a portata di mano considerando che già oggi il 40% delle terre coltivate su scala mondiale sono entro 20 km dalle città.
Inoltre favorire lo sviluppo di un’agricoltura distribuita e rigenerativa permette di supportare le colture locali, accorcia le catene di distribuzione riducendo le emissioni legate ai trasporti e la necessità di imballaggi. Non solo. Visto il flusso di cibo in entrata, le città rappresentano il luogo ideale nel quale utilizzare i sottoprodotti e gli scarti trasformandoli in nuovi prodotti, per esempio ricavandone fertilizzanti organici e biomateriali innovativi.
Provando a quantificare i benefici lo studio prevede che dall’utilizzo dei sottoprodotti alimentari e dalla riduzione degli sprechi si avrebbe un risparmio di 700 miliardi dollari l’anno; la riduzione delle emissioni serra legata all’accorciamento delle catene alimentari porterebbe a un taglio di queste di 4,3 miliardi di tonnellate di CO2 equivalenti; l’adozione di pratiche agricole rigenerative ridurrebbe i costi sanitari di 550 miliardi di dollari.