Ogni 90 minuti, il tempo di gioco di una partita, scompare un’area di piante marine grande quanto tre campi da calcio e, con essa, la quantità di ossigeno pari a quella prodotta da circa 10.000 alberi è persa per sempre

Qualche tempo fa in una e-mail di Mare Vivo, ho letto una notizia che mi ha colpito e diceva testualmente: “Cosa succede in 90 minuti? Nel 2006, in novanta minuti l’Italia è diventata campione del Mondo. Non solo. Ogni 90 minuti scompare un’area di piante marine grande quanto tre campi da calcio. Sai cosa significa? Che nel tempo di gioco di una partita una quantità di ossigeno pari a quella prodotta da circa 10.000 alberi è persa per sempre“.
Ho approfondito l’argomento, scoprendo che più del 50% dell’ossigeno che respiriamo viene proprio dal mare e, se continuiamo di questo passo, presto le foreste marine non saranno più in grado di fornirne a sufficienza per la nostra sopravvivenza. E ho cominciato davvero a preoccuparmi di quanto ho letto, perché si sente molto parlare, ed è sacrosanto, di iniziative di rimboschimento e protezione delle foreste terrestri (il nostro giornale è particolarmente attento a questo tema), ma molto poco delle foreste che esistono sott’acqua.
Poiché amo il mare e le piante ovunque esse vivano, ho pensato di scrivere questo articolo per condividere le informazioni e la mia preoccupazione con chiunque li abbia a cuore e abbia voglia di leggerlo.
Proprio come la Terra anche il mare ha le sue foreste, come quelle di Posidonia oceanica e Cymodocea nodosa che producono ossigeno e garantiscono la vita sul Pianeta. Ma dal 1980 nel Mediterraneo il loro ruolo vitale è in pericolo a causa di una forte antropizzazione delle coste, della pesca a strascico, dell’ancoraggio selvaggio, dell’inquinamento e del cambiamento climatico. I nemici di queste piante sono, per esempio, le reti da pesca abbandonate che soffocano le praterie sommerse di Posidonia oceanica presenti sui fondali, catturano gli animali marini e inquinano le acque a causa delle microplastiche rilasciate nel tempo.
Scienziati australiani hanno sequenziato il DNA di 40 praterie giganti sottomarine di Posidonia oceanica, in una zona di oltre 2.000 chilometri, dalla Spagna a Cipro. L’analisi ha confermato che la Posidonia aveva un’età compresa tra 12.000 e 200.000 anni con un’età media intorno almeno ai 100.000 anni. Si può dire perciò che la Posidonia è forse la pianta più vecchia che abita il Pianeta.
Le praterie sottomarine sono un rifugio per gli animali marini perché costituiscono una serie di microhabitat e risorse alla flora e fauna del Mediterraneo, con un conseguente aumento nella ricchezza nelle specie che vi abitano. Permettono la crescita, riproduzione e accoglienza di numerose specie animali e vegetali favorendo l’aumento della biodiversità. Le specie di pesci comunemente trovate nelle praterie di Cymodocea nodosa sono innumerevoli, tra le principali si trovano: pesce pappagallo, saraghi, orate, marvizzi, seppie, ghiozzetti, pesci ago, pagelli, dentici, triglie, murene e tantissime altre. Le fanerogame marine, Posidonia oceanica e Cymodocea nodosa, hanno quindi di un fondamentale ruolo ecologico tanto che sono anche definite engeneering species cioè specie che sono in grado di “costruire” un substrato che consente l’insediamento di molti altri organismi vegetali e animali e che sostiene una complessa rete trofica e sono la casa del 25% degli abitanti del Mar Mediterraneo.

Sono essenziali anche per l’assetto del territorio costiero a garanzia del quale operano in molteplici modi: in termini di attenuazione del dinamismo costiero, perché le lunghe foglie delle praterie, flottando nell’acqua, attenuano l’energia del moto ondoso che raggiunge le spiagge; contribuiscono a stabilizzare i fondali sabbiosi in quanto la complessa struttura della foresta trattiene i sedimenti marini e ne impedisce la dispersione da parte delle onde e delle correnti; stabilizza anche le dune con i depositi di egagropili (foglie di posidonia oceanica intrecciate a causa del moto ondoso, che formano le caratteristiche palline marroni di consistenza feltrosa), che nella zona dunale creano delle rugosità sulla superficie del terreno che favoriscono l’attecchimento di piante pioniere costiere, contrastando l’asporto della sabbia da parte del vento; non ultimo contribuiscono alla protezione delle spiagge: le banquette di foglie morte che si accumulano lungo gli arenili proteggono la sabbia sottostante dalle mareggiate invernali, limitando l’erosione costiera.
Diventa quindi fondamentale e urgente innescare un processo di protezione e ricolonizzazione tramite trapianto delle praterie marine degradate, per ripristinare e consolidare l’intero habitat. Le operazioni di piantumazione di piante marine sono importanti quanto quelle di rimboschimento che vengono effettuate sulla terraferma, perché queste praterie sono anche estremamente efficaci nel catturare il carbonio, tanto che ne catturano fino a 35 volte più velocemente delle foreste di terra e, anche se coprono solo lo 0,2% del fondale marino, assorbono il 10% del carbonio dell’oceano ogni anno, rendendolo uno strumento incredibile nella lotta ai cambiamenti climatici.

Le operazioni di piantumazione, si legge sul sito di Mare Vivo, però richiedono operazioni subacquee molto complicate e tantissimo impegno e precisione da parte di ciascun subacqueo, in quanto i fondali sono habitat delicatissimi che le reti abbandonate mettono continuamente a rischio. Ma finalmente tutte le fanerogame marine del Mediterraneo minacciate sono oggi protette da protocolli e convenzioni internazionali. Ultimo nel tempo, il Trattato internazionale sull’Alto Mare: nel marzo scorso e dopo 15 anni di trattative, gli Stati membri delle Nazioni Unite hanno raggiunto un accordo sulla protezione dell’Alto Mare, un tesoro fragile e vitale che copre quasi la metà della terra e rappresenta il 95% della biosfera del pianeta, produce la metà dell’ossigeno che respiriamo e assorbe l’anidride carbonica, essendo il più grande serbatoio di carbonio al mondo. Tuttavia, fino ad oggi, le norme frammentarie e poco applicate che regolano l’alto mare hanno reso quest’area suscettibile allo sfruttamento, quanto e forse più rispetto alle acque costiere, che alla valorizzazione della blueconomy.
Finora nessun singolo governo si era assunto la responsabilità della protezione e gestione sostenibile di questi ecosistemi sempre più vulnerabili perché non tutelati efficacemente. Secondo alcune stime, tra il 10% e il 15% delle specie marine è già a rischio di estinzione, tant’è che alcuni degli ecosistemi più importanti del Pianeta sono ancora a rischio con conseguente perdita di biodiversità e habitat. Il sistema di protezione delle acque internazionali fin qui utilizzato anche in Italia ad esempio, ha prodotto poca tutela e molta confusione. Come nel caso del Santuario dei Mammiferi marini definito sulla base dell’Accordo Pelagos nel 1999 che interessa Francia, Italia e principato di Monaco, che aveva l’ambizione di tutelare una vastissima area dell’alto Tirreno (87.500 kmq e 2.022 km di costa) in un mare, quello Mediterraneo, tra i più esposti alle pressioni antropiche ma anche uno dei 25 hot spot di biodiversità riconosciuti a livello globale. Il Santuario, creato sulla base di un accordo tra Stati e non sulla base di un trattato internazionale, secondo un articolo de La Nuova ecologia, è stato fin qui un clamoroso flop: si fa fatica a individuare uno solo dei rischi conosciuti per i mammiferi marini presenti nell’area (traffici marittimi, trasporti di idrocarburi, etc…) che è stato mitigato dall’azione di tutela imposta dalla presenza del Santuario.
Il nuovo recente Trattato sull’Alto Mare dunque protegge le acque internazionali: l’area di mare che si trova oltre la Zona economica esclusiva ZEE – oltre le 200 miglia nautiche della costa – e occupa circa due terzi dell’oceano. Si tratta di aree che fanno parte delle acque internazionali, quindi fuori dalle giurisdizioni nazionali, in cui gli Stati hanno diritto di pescare, navigare e fare ricerca e, troppo spesso, estrarre idrocarburi e inquinare.
Perciò mi unisco a al benvenuto che giunge da molte parti per questo nuovo trattato, attraverso il quale l’Onu istituirà una conferenza delle parti (Cop) ad hoc che si riunirà periodicamente e consentirà agli Stati membri di essere chiamati a rispondere di questioni quali la governance e la biodiversità. Uno strumento come questo, che non arriva certo troppo presto, serve per istituire nuove aree marine protette e proteggere anche il bacino del Mediterraneo e all’Italia per affrontare con la dovuta diligenza la tutela di aree particolarmente esposte come l’alto Adriatico, dove serve un’azione congiunta con i Paesi balcanici per tutelare i siti importanti per la presenza dei mammiferi marini e per ridurre i rischi di utilizzo dei fondali per la ricerca e lo sfruttamento degli idrocarburi. Serve per i banchi di coralligeno a sud di capo d’Otranto, d’intesa con i paesi costieri dell’Adriatico meridionale (Albania, Grecia, Cipro) e la biodiversità presente nel Canale di Sicilia d’intesa con i Paesi del Nord d’Africa.
M. A. Melissari
6 maggio 2023
Grafici: Mare Vivo
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