
Fagus sylvatica – Il faggio é un albero di montagna. Cresce bene dai 1000 metri fino al limite degli alberi (sull’appennino, 1700 metri circa). Alto, dritto, con una chioma maestosa che stormisce nel vento.
Le radici, come dita, afferrano il fianco della montagna, abbracciando le rocce, si intrecciano tra loro. Versanti e crinali tenuti insieme a disprezzo della gravità. Se, per magia, sparissero i primi 5 metri di substrato la forma della montagna non cambierebbe, mantenuta da un’impalcatura contorta e continua.
Al faggio piacciono la nebbia e le nubi ma non ama che l’acqua ristagni.
Il sottobosco é pulito, mantenuto spoglio dalle foglie degli anni precedenti che coprono tutto come uno spesso tappeto, e sembra un colonnato che, illuminato al tramonto dalla luce orizzontale rende l’atmosfera irreale.
Sulle giovani foglie meglio irraggiate dal sole, la Cecidomia del faggio depone le uova e lui si difende producendo lucide e colorate galle e la lettiera é popolata di coleotteri saprofagi e humifica grazie a batteri, ma soprattutto, funghi. “Al faggio (alla quota) ci vengono i porcini buoni” dicevano i vecchi lunigianesi.
I frutti, commestibili contengono molto olio ottenibile dalla spremitura e il legno, distillato a 200/225 gradi rilascia creosoto, disinfettante ed espettorante. L’infuso di corteccia é febbrifugo ed astringente.
Il legno è compatto e se ne fa legname da costruzione e per utensileria essendo adatto alla lavorazione al tornio.
Era consacrato a Giove, prima della Quercia, e oggetto di culto come albero cosmico.
All’ombra dei faggi , la temperatura é più mite, l’umidità aumenta, diminuisce la velocità del vento e …si sta bene, come Virgilio fa dire a Melibeo, rivolgendosi al pastore Titiro nelle Bucoliche:
Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi silvestrem tenui musam meditaris avena nos patriae fines et dulcia linquimus arva; nos patriam fugimus: tu, Tityre, lentus in umbra formosam resonare doces Amaryllida silvas.

Titiro, tu che riposi all’ombra di un ampio faggio, vai modulando con il flauto dolce un canto agreste; noi lasciamo i territori della patria e i dolci campi, noi fuggiamo dalla patria; tu, Titiro, adagiato all’ombra, insegni alle selve a cantare la bella Amarillide.
di Massimo Luciani
25 agosto 2020