
Borago officinalis. La borragine é una pianta rinomata e pur essendo di origine nord africana era conosciuta già da Plinio che la chiamava “euphrosinum” considerandola capace di donare la felicità: “Ego borago- Gaudia semper ago”. Secondo Plinio infatti “Un decotto di borragine allontana la tristezza e dà gioia di vivere”, avendo questa pianta la fama di svegliare gli spiriti vitali. Dioscoride la chiamava Buglossa giacché la foglia assomigliava ad una lingua bovina.
Era famosa in tutto il bacino del mediterraneo per la diceria che rinvigorisse i nervi e lenisse la malinconia. Tra i Celti era usanza darla a bevanda ai guerrieri prima delle battaglie per spronarli in guerra. Era così famosa ed esteso il suo uso che l’etimologia del nome si é persa. C’è chi crede che il nome venga dall’arabo “abou-rash” e significhi “padre del sudore” a ricordarne le proprietà sudorifere; altri dicono che derivi da “borra” che era un tessuto di lana grezza e ispida, per la peluria che ricopre le foglie; altri ancora che venga dal celtico “borrach” che significa coraggio. Resta il fatto che il termine borragine ci provene dal medioevo, epoca in cui le sue virtù erano molto considerate. La pianta é molto ricca di calcio e potassio e già Galeno credeva che “facesse buon sangue” se messa nel vino. Il medico napoletano, Giuseppe Donzelli nel sua trattato alchemico del 1660 “Teatro farmaceutico, dogmatico e spagirico” riporta che essa “toglie l’immaginazioni cattive, acuisce la memoria e la mente e distacca dal corpo tutti gli umori cattivi”.
Alcuni testi riportano che esisterebbe un antico uso per i fiori; essi se adeguatamente trattati fornirebbero un colorante blu intenso che i pittori usavano per dipingere il mantello delle madonne. Questo aspetto ha consegnato alla fantasia popolare una leggenda secondo la quale il fiore di borago un tempo candido si fosse incolorito quando la Madonna ne vide uno, vi si specchiò e la toccò.
Nella tradizione gastronomica italiana é onnipresente ed ogni nonna conosce almeno una ricetta con la borragine, eppure é emerso che purtroppo contiene quantità difficilmente titolabili di alcaloidi pirrolizzidinici che sono, ancora purtroppo, tossici e cancerogeni tanto da spingere il Ministero della salute ad inserirla nella check list delle piante vietate per la preparazione di integratori alimentari. Ne risulta quindi sconsigliato l’uso interno e specialmente quello alimentare, ma qui é forse utile fare un po’ di chiarezza. Gli alcaloidi pirrolizzidinici sono una categoria di composti metabolici derivanti dalla pirrolizidina, prodotti dalle piante allo scopo di difendersi da parassiti ed erbivori. Si stima che il 3% di tutte le specie vegetali producano questo tipo di composti che sono quindi onnipresenti all’interno delle catene alimentari. La loro azione si esplica a carico delle vene epatiche favorendone l’occlusione e sono colpevoli di generare mutagenesi nelle cellule del fegato con possibili esiti cancerosi. Tuttavia, piante che ne producono sono inevitabilmente brucate da animali che a loro volta verranno predati. Pertanto la ricaduta sulla dieta umana non è stimabile, essendo così varie e numerose le fonti alimentari (vegetali, uova, latte, burro, carni) e, quindi, non si è in grado di quantificare il danno dell’esposizione, lasciando ad ognuno di noi l’onere del rischio.
La natura é comunque molto utilitaristica e ha trovato il modo di favorirsi anche dei veleni. Alcuni lepidotteri hanno infatti imparato ad utilizzare questi composti che sono diventati per loro quasi indispensabili fungendo da precursori alla formazione dei feromoni necessari all’accoppiamento.
Una considerazione che mi sento di fare é che le tradizioni sono importanti ma le pratiche alimurgiche (l’alimurgia, pratica antica che precede l’agricoltura, ci fa scoprire le piante spontanee e il loro potere nutrizionale) nascono quasi unicamente da esigenze di sopravvivenza. Oggi, superate le contingenze che ci spingevano al consumo di qualunque cosa ci fornisse nutrimento, riscopriamo o tramandiamo queste tradizioni in maniera “culturale” e come in un vezzo dotto ci spingiamo in territori alimentari che sono azzardati, alla luce della scienza attuale, solo per edonismo intellettuale.
Massimo Luciani – Etnobotanica
9 marzo 2023
Storie di alberi e piante